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FLECTERE SI NEQUEO SUPEROS, ACHERONTA MOVEBO PODCAST

TACCUINO #11


Parte Seconda.


Società. Il sociale. Pensieri. Io. Persona. Indicibile intimo Essere. Un tentativo abbozzato che scala sull'individuo e mi fa intendere i processi del fenomeno uomo, sulla corrispondenza del proprio essere nel mondo agli altri mondi. Se sia la maschera a condur l'io, oppure sia l'io a governar la maschera, dovrò rispondere attraverso ulteriore indagine. Sarà necessaria nuova e più brillante luce in tutto questo buio appositivo determinativo.


Dal sociale non ci si può separare. Ah, se si potesse!


Se la pulsione si forma in masse (e quando), gli apparati che replicano, religano a illusione. Manipolati da credenza e fede, convincimento e certezza. Apparati che disdicono esistenza umana assumendo nuove vite, spaziando un terribile tempo ove l’uomo non debba mai vivere ciò che accade, ingannato da forme illusorie. Guarda, osserva, esperisce, ma non vede. Eppur ne è subente. A tutta prima l’emozione di sorpresa presto tramuta in delusione, come se per avversione a quel che già perplime, sulla consapevole accoglienza di ciò che di saper si sa che è male, il rigetto di un morto anelito ramificasse tristezza, dolore e pena. E ramifica. Problema, problemi. Argomentiamo discorrendo sulla via risolutiva, ma non si tratta certo della congettura di Poincaré e del suo risolutore, altro fratello di sangue. Se assumiamo corretta, giusta, una possibile via, ove adottando la quale assiomi e postulati ben descrivono ogni tentativo di non contraddizione, dovremo farci strada agguantando il sospetto, quasi fosse mezzo di scavo per raggiungere ulteriori profondità alla ricerca di celati trascorsi, forti che un guizzo controcorrente possa condurci al destino di nuova forma, senza dover sradicare totalmente quel che già riposa. Qui il dilemma ha antica origine, e anche se si trattasse di incarnare hilelismo, homoranismo, raumismo, per lottare imbracciando cuori e speranza, pace e fratellanza, nuove opinioni e mode, movimenti e illusioni, le fantasie non chiuderebbero il cerchio. Tempo fa lessi di nuove proposte che (possibilmente) favorirebbero pensiero critico suggerendo sistemi educativi che imporrebbero a bimbi e bimbette l'ascolto e lo studio delle storie delle molte religioni, in luogo dell'impasto canonico di dottrine cristallizzate. Come se non ne avessimo abbastanza e se non si scorgesse all'orizzonte il pericolo di una nuova corrente che, come l'ultimo fresco, si trascina sempre rischi, inevitabilmente. Sulla via dell'ennesimo revanscismo vi è sempre chi si dimostra pronto a sellare nuovi cavalli di ferro e a lanciarli in battaglia.


L'ipotesi di un'imbiancata conoscenza che da anni si definisce mio amico, sollevò tempo addietro non pochi ragionamenti. A tutt'oggi, premettendo la forza che perdura in tutti, sviluppata dall'impossibilità di cancellar il conosciuto, ovvero la storia, egli si domanda quale possibile risvolto avrebbe per nuova specie il sospendere l'insegnamento. Se, quindi, non trasferissimo ciò che è stato? Esso propone un nuovo mai tentato modello. Il vantaggio pulserebbe con carica achea, argiva, danaita o micenea, al pari di un passato raccontato, ove stermini scelsero per il nuovo futuro, a coprire le tracce teucre. Risulterebbero ascosi: falsi storici, battaglie, conquiste, nomi, polemiche, vittoriosi e vinti, fallaci traduzioni, maldestre interpretazioni, ignobili interpolazioni. L'amico propone il sospendere le verità, le favole, le paradossografie, le conoscenze. Dopotutto il passato non è, eppur si vive. Sulle narrazioni, credulità, granitiche certezze, convincimenti, alla fin fine, oltre l'esperienza propria, sembra si assista solo all'opinare. E non si può escludere che è proprio questo ciò che potrebbe corrispondere al ver vissuto. D'altronde anche le futilità incarnate dall'ignorante corrispondono all'esperito. Si farebbe verità mancando l'incalzar perpetuo di annosi topos, di ennesimi racconti di homini novus, di archetipi, di dover cogenti? È questa la domanda?


Propongo a me stesso la strada del dubbio ed esorto me medesimo a seguitare.




Sulla via della specie.


Ogni vita è un nuovo infero. Pensarti morto è l’unica sensazione corporea che dona senso. Si apprezzano istanti. Tutti. Il problema è l’ambiguità tra essere e punto di vista descrittivo. Sulle perpetue storie che muovon ad agiti. E sugli agiti, quanta importanza attribuita a quel che importante non è, all'interno della follia di un respiro che dura il lancio di una moneta. Quale faccia è uscita? Quale lato? Ove si colloca il nostro tempo? A me pare che si esaltino superba malvagità e ipocrisia, sempre più, tutelando il mortale distruttore, il piccolo incarnato che fugge giustizia, sempre sul limite della nascita dell'oltre da sé, ma gordo della spinta pulsiva che di vigliaccheria felicita gherminelle.


Eccoci a gustar la prima fila: «Che si guarda?». «Si guarda il disadattato domesticato che non partecipa di alcuna nicchia ecologica».




Qualcuno (forse) disse: grandi scienziati, anche artisti.


L'uomo è l'esperimento scientifico che vacilla come barca in acque tempestose. Codesto è l'animato che non può decidere ma scegliere. Se l'uomo decide, Dio se la ride, recita un popolare adagio. Ecco la sua libertà nel fallire ribaltando o nell'andar oltre dentro l'indicibile intimo essere, per costituirsi Superos comprendendo infinita fine.


Finalmente formato, ecco a voi l'uomo liquido.


Il nuovo uomo liquido è regredito, infantilizzato, privato dell'essere psichico naturale, ridotto a oggetto tra oggetti, e non cosa tra cose. Ha sovrapposto materia organica e inorganica percependo disgusto e disapprovazione quando crede di vivere disappagamento, proiettando ogni disturbo dell'essere in presenze esterne e estranee. La rimozione di quel che è altro da sé è la buona strategia che pensa sia vincente. «Se non posso rimuovere, attacco e distruggo», si dice. Ecco aperta la porta sul baratro. Ma dove è il liquido? Se osservasse, si vedrebbe sul fondo, e alzando il capo, eccola, la porta che riconduce alla vita. «Ma sono l'incarnato di una vita inautentica, impersonale ed anonima! Più ho e meno sono. Giacché è il posseduto a possedermi».


Il fallimento tragico che partecipa di assenza di forza, coraggio, vitalità, respiro. Un corpo che usa corpi, si nutre di tempo, muore ogni istante guardando tutto ciò che scorre lentamente nel morire tutto attorno e non vede; corazzato si riveste di nulla di nuovo sotto il sole, promuovendo quel che reclamizza futilità.


Benvenuto.

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TACCUINO # 10


Parte Prima.


Narrare la vita nell'ora più silenziosa.


Il possibile creare artatamente efficace inganno dell'amor universale interpretato da quel di Tarso, sempre sia esistito, e complici, sempre siano esistiti, ha spinto l'essere cosiddetto umano a non essere più, a non esserlo più. Così vien pensato amore quel che non era, non è, e non sarà. Soprattutto, non esiste nel circolar eterno tempo di ritorno. Ma non è ciò che si vive. La sostanza vive quel che il pensato vissuto, fallendo, interpreta. L'exsistĕre lineare non è l'aeternum externus: all'interno del fuori dal ternus, ternum, ternae. Se l'esistere fosse il divenire, e quest'ultimo il divenir se stessi, l'essere è e non diviene, ma si scopre in ciò che era, è e sarà. Poiché dal nulla era, è e sarà nel nulla, al nulla. Abbordando il vocabolo francese terne, risulta curioso apprendere consegnata traduzione di smorto, spento, opaco. Ritorno così sull'esser morto, morti. Ancor la nebbia non si dirada. Mi incammino tastoni. Occorre distinguere da due entità ingannevoli per l'essere: la pulsione di piacere e del suo soddisfacimento, e la subdola volontà di occuparsi dell’altro per controllarlo, per utilizzarlo come oggetto (e non cosa), con l’intento di sfogare un malcelato risentimento verso la vita. Questo lo sfogo masochistico dell'ossessivo pulsar di morte. Questo il compulsivo tossicofilico. Questo il volere narcisistico che uccide la volontà di potenza e produce danno, frutto dello psicotico alla deriva, qui foret ignorans quia naufragus. L'esser fiero di quel che si è, di quel che si dice, dell'agire, del pensare, è il momento di inimicizia e guerra. Non esiste contenitore che sia bravo, migliore, il "più". Da questo risulta facile evincere che ciò che conosciamo non è "più" importante, o (anche) semplicemente non è importante. Ha rilievo quel che sappiamo e ciò che per ricordo è saputo. Nessun nulla ha capacità di esser preferibile, poiché è il contenuto del contenitore a dover essere (semmai) apprezzabile. La verità viaggia su locomotive che muovono in cerchio su un solo binario, in equilibrio equidistante da schizofrenie perverse, condizionanti parlanti. Binari e locomotive radicano futilità. Solo il contenuto è prezioso e proficuo. Enigma che potrebbe trovar risoluzione alla guisa del nodo gordiano. L'inautentica personalità narcisista troverebbe così soluzione, nella completa rottura del legame con il padre, o con la madre, ma dovrebbe ancora lottare con la sua incostituita misura che non può permettere in vita l'esclusione dell'ascoso sentimento di fallimento per tutti quanti (idiosincratici e esaltatori d'orgoglio), tanto celato dalla resistenza dell'indicibile intimo essere, unico a far luce sulla propria formata meschinità. La deiezione di sé è il tratto che non può essere espulso e l'essere viene sempre ingaggiato, rivestito da subdola maschera disintegrata, nel tentativo di portar avanti distruzione di altri mondi (altro da sé), squallidamente tentato per saturare una ferita non rimarginabile. Essere che distrugge storie. Essere che distrugge storia. Non vedendo realtà che appare, genera inganno. Si pensi per contrario al suicida, che per non affrontare l'attesa al nulla desidera la propria scomparsa, anziché vivere pazientemente la frattura nel tempo. Ironico pensare all'esercizio dimostrativo di piena volontà di potenza in contrapposizione al pensier di chi si esprime per certezza nel condannare tutto quello che contrasta la cognitiva marea popolare, che per comune condizionamento reputa per opinione (anche) il non osservato giusto o sbagliato, a motivo di quel che di carattere inesistente vien dogmatizzato; ma poi, indagato il singolo, alla domanda: «Ne ha davvero certezza?», non stupisca l'ottener un flebile certo: «Credo di sì, ... ma con un punto di domanda».


Visibili danni.


Sostengo che l'occhio sia importante organo attraverso cui l'uomo, e quindi la scienza, osserva ciò che lo circonda. Ingannati (forse) dalle interpretazioni sensoriali, ma (possibilmente) geneticamente così costituiti in modificazione dei cosiddetti primitivi, o per altra via teorica, collego i danni alla vista ai danni alle pudenda, e viceversa. Gli organi genitali sono prime utili necessità scoperte, oggetto di esposizione alla vista, zone sensibili chiuse recintate e protette, utili all'importanza dell'immagine. Le società, per costume, si sono allontanate da quotidianità e usi antichi, introducendo ruoli che hanno inevitabilmente deviato percezioni attraverso emozioni e sentimenti, quali paura e pudore, costituendo nuove forme adattive. Ciò nonostante, le radicate fragilità umane permangono per ragion di sangue. Possiamo constatare, nel trauma, il perdurar di avversione nel ricordo di qualcosa di unheimliche, e ben comprendere la netta differenza tra il percepire attraverso la narrazione di qualcosa di angoscioso e la proposizione: «Ho visto qualcosa di angoscioso». Una frase simile avvicina ciascun uditore, anche se inconsapevole, all'orribile, all'orrifico, all'inquietante, al perturbante. Sulla via del distruttore di storie, lo scardinamento delle virtù cancella l'autenticità e carica energeticamente pulsioni di sottomissione e passività ben celate dall'indicibile intimo essere, ma pronte all'innesco al pari di feroci fiere che irrompono dietro le linee per sferrare attacchi (debolmente) arginati dai consci tempi. Nel narcisista, nemmeno l'incontro con l'inteso oggetto colpisce omicidialmente le sanguinarie, promuovendo il superamento per dimenticanza. Loro, vigili, si scatenano libidinosamente in meta, secondo stortura mentale, impossibilitando anche lo studio frankliano (che non tange, ovviamente, lo strutturato non ben formato). Qui, la straordinarietà è fatta dell'ordinario. Sulla via della (quasi) "naturalezza" incontrollabile, alcuni cenni potranno riportare comprensione che si potrebbe aver taciuto nelle sabbie...


Ernst Jentsch pare aver scritto:


«Uno degli artifici più sicuri per provocare effetti perturbanti mediante il racconto consiste nel tenere il lettore in uno stato di incertezza sul fatto che una determinata figura sia una persona o un automa».

L'osservare il narciso muove a chiedersi in più occasioni se si partecipi della compagnia di una maschera o di un automa. Il racconto è tutti gli istanti che chiamiamo presente, nell'ora più silenziosa che imbriglia il perduto (e nel perduto) restituendo cicatrici.


Questo mi spinge a rievocare Friedrich Schelling:


«...tutto ciò che doveva rimanere segreto ma è venuto alla luce».

Temo che qui, con segreto e luce, ci volle lasciar intendere: non sarebbe mai dovuto venire al mondo; non tanto un mostrare ciò che l'indicibile intimo essere nasconde inconsciamente e deietta scaricando quando le pulsioni sono troppe da regolare. Ancora, una sovrapposizione mi spinge all'immaginario che disegna per astrazione le fanciulle di Efesto, e l'Olimpia di E.T.A. Hoffmann. Si badi, sulla via di storture mentali identificate per linea di sangue, non adotto scorrettezza e uso improprio di chi argomenta di malattia, giacché di danni a organi non discuto. Questa esclusione mi porta a valutare differenze, si direbbe diversità. Se allora si ha il malato e si ha il diverso, occorre a mio avviso separare il perturbante, poiché è danno al malato e al diverso, ma non è né l'uno né l'altro. L'automa che non partecipa di vitalità, trasferisce il non - adatto. Chi ha lume potrà por riflessione sulla via di krisis, sperimentando così la drammaticità dell'esistenza umana, mai migliorata, e il peso del diritto di esistere per chi sopravvive distruggendo deliberatamente vite, come grezzo náphthas zampillante di tragedia pratica su oro, superando e superandosi, liberi da manipolate etica e morale condizionanti.

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TACCUINO #9


All'età di anni quattro pensai che la fantascienza non è cosa che esiste. Due anni dopo, immaginando il divenire dell'uomo che avrebbe fatto l'astronauta, mi suggerii l'evitar di pensare potessero esistere invenzioni e inventori. Esistono solo scoperte. Si tratta di ricercare, rimembrare, far luce.


La nana bianca che in rappresentazione dell’ultimo stadio di vita destina a morire tutto ciò che sta attorno spoglia il mortale di tracce di umanità, agendo sul piano fisico mentale, e sul difficile indagato psichico. Sul perché, ci si muove per assaggiare il μείρομαι partecipante di un continuum spazio temporale. Il fine apre gli occhi a chi guarda ma non vede, affinché si rilevino atroci realtà e così si colgano essenze prime. Le linee di sangue. Il ruolo del pericoloso criminale di specie. Das Unheimliche. La personalità che incarna guerra, morte. Polemos. Orbene, abbozziamo ora un rigoroso tentativo sulla considerazione dell'essere. Seguiterò in futuro vaglio dell'essere psichico, non escludendo sovrapposizione che nella nebbia non vedo. Ad ora, l'attrattiva invita ad adombrare il visto muovendo come pedone che avanza addentrando. Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo; poiché il nemico più grande si nasconde nell'ultimo posto dove guardi.



La fantascienza non è cosa che esiste


Qui siamo già morti. Qui sono già morto. È nel concepimento che si scatena la pulsione di morte pronta da quella desiderata idea che cresce la gordigia di specie. Ecco il punto massimo dal quale rotola il declino. Ecco il pulsare della batteria armata che domina lo iato fra nulla. Ecco la malattia, l’illusione. Il cader nel mondo. Questo, in coppia con l'innamoramento, se non altro è l'incomoda affezione delle facoltà dell'uomo, da taluni cosiddetto fenomeno passivo della cosiddetta universale e misteriosa coscienza. Chi ha molto amato sa. Giacché sono le cellule che sanno. Ma ecco il perverso. È (solo) il sangue. È respiro. Dalle scaturigini del tempo, in ordine al cosmo, scorre e si inquina tra rancorose commistioni che definiscono deboli sentimentalismi aromantici veri. Spreco. Questo è follia. L’abito dolce di ciò che abita e conduce, terribile spia che induce. Animaletti siamo. Animaletto sono. Ben bene l'esistentivo al postutto potrà rimembrare.


Concentriamo il passo sulla scia già tracciata...


Il narcisista è lo zombie filosofico, per natura di sangue? Burattino di specie. Fantoccio, vacillante aferetico automa sperimentale. Tra gli esseri mortali vi sono chi, inconsapevolmente, esistono un’esperienza di cieca memoria interadattiva e non godono del partecipare di sanità mentale. Qui, il lettore attento potrà obiettare muovendo critica sulla necessità di cogliere pienamente la questione consapevolezza, materia del tutto complessa. Se il carnefice di specie non considera mondi, persone, società, vista, páthei máthos, ethos, logos, incarnando l'esisto solo io in absentia praesentia oggettificando chi invece è io sono poi uno solo e gli altri sono tutti, come par riporti chi una vita l'ha vissuta capendo, cosa possiamo aggiungere alle manifestazioni narcisistiche? Dovremmo trattare il - da taluni considerato - mostro quale pienamente consapevole o, invece, assumere certezza contraria? Sarà compito del tempo nella nebbia dover dar risposte sul chiarire delle forme che ivi ad ora son ascose. Se mi trovassi all'interno di un ceduo dovrei avvertire, sul movermi, forme di fusto. E chissà quante ne percepirei, se diradasse il giusto limite protettivo. Nel dubbio non posso escludere la vicinanza di una voragine. Sul nuovo precipizio cosa mi farebbe capire di un regresso o di un'avanzata? Ancora, qui potrebbe essere un deserto. Il lungo viaggio. Meglio attendere e seguitare la congettura sulla cosiddetta personalità narcisistica. Si direbbe l’anello ultimo e più debole della catena umana. Ecce homo. Schiavi di specie. Errori prodromi. Persone, che han disintegrata la maschera, non per indossarne di nuove da esibire a vantaggio, ma per svelare il fenomeno, fainòmenon, che appare, fàinomai, mostrarsi, apparire. Il criminale egoista. Se vogliamo, la personalità più incompleta a servizio della specie, ma a essa funzionale. Il continuo ricorso a multiple unioni nasce dall’insufficienza energetica che per tentare un equilibrio in quel che il cosiddetto io osserva oggettificando, non potendo completarsi in risonanza, ricorre a motivo di impasto pulsivo al consueto meccanismo di consumazione. Dapprincipio non apprezzo il termine io, né l'utilizzo. Al sottoconcetto che esprime la personificazione della maschera che intende l’essere, dovrò con cura porre rimedio, per cogliere pienamente l’essenza di quel che penso sia l’immagine sociale che pensa attingendo dall’illusione e nuota all’interno di essa, credendosi un bagnante importante, salvo se si coccola facendo il morto al sole. L’insufficienza di cui sopra è l’indicibile intimo essere che si mostra, disgregando la maschera che partecipante di fragilità assume falso dominio a protezione di superiorità d’agito, ingannando il sociale (i pensieri e loro) e catturando pienamente l’illusione seduttrice. Questo fenomeno che chiamiamo manifestazione è risultato vincolante e non rifiutabile a motivo di stortura della mente. Unico beneficio è tratto da pulsione di morte e specie, i quali sorriderebbero compiaciuti alla vista dell’ennesima débâcle, se non fosse che da tempo più non si curan dell’egolatra. Il narcisista, per quanto sopra descritto, vive l’indicibile intimo essere che controlla e null’altro può, in assenza di misura. Si direbbe un’esistenza mossa a continuo controllo di ogni qualsicosa, doveroso poiché esso stesso è mancante di equilibrio, misura, controllo. In un passato scritto inferii indicando il processo sottolineando paradosso. Si badi, apposizione non è essere. Essere non è il soggetto, se lo intendo parlato da un linguaggio. L'essere non si può astrarre. Azione, pensiero, azione. L'indagine spinge, come già ieri, sulla sostanza. Una psicanalitica delle scaturigini del tempo che formano materia. Corrompibile materia che tradisce la vita. La radice di tradire muove a consegnare. Qui si colloca il narcisista, quasi fosse pedina umana tra le nevrosi, che per destino bieco muove per debole carenza di riproduttiva struttura sperimentale al fine di smembrare esistenza. Si faccia attenzione sul significato di crimen e (nuovamente) io. Non dobbiamo separare l'essere che razionalizza e socializza dall'indicibile intimo essere, ma agir sulla via possibile dell'analisi dei due, sapendo che è uno. Si presti ancor più nuova diligenza nel discernere sapere e conoscere. Ancora, questa è la via che mi potrà condurre allo svelamento dell'essere e dell'essere psichico. Eppur, tuttavia, sono queste solamente macchie nere su spazio bianco? Non lo escludo, in un mondo là fuori ove Il firmamento si mangia in un piatto. Forse ho scritto tutto. Dubito il poter ancora pensare a ciò che intendo con crollo. Attenzione: rimanere comodi sulla posizione a sedere. Si segga madame, gusti il declino o fotografi il bello. Faccia entrambe le cose, guardando ebbri visi compiaciuti. Risulta encomiabile l’interesse di coloro che muovono attenzione dimostrata ai problemi occidentali, così quali percepiti nel marcio che ribolle come rigogliosità d'acqua che tracima dal pentolone ricolmo e gonfio. Trovo sia direttamente proporzionale all’impegno di perpetrato condizionamento mentale che religa a isteria collettiva nel discutere di attesa parusistica. Oggi, sulla via di nuovi aggiornamenti culturali che a mio avviso non rivoluzionano in direzione di corretta educazione, si direbbe disordine di conversione, in luogo di isteria. Le mutazioni di linguaggio sembra conducano (anche) a neologismi utili a sempre miglior comprensione dei concetti sottostanti terminologie, nella speranza di catturare e stringere afferrando nella più stretta morsa. Ma cogliere rientra nella mia sezione di negatività tra le parole che scrivo su carta e che stanno al di là (taluni potrebbero dire al di qua) della linea tracciata nella mezzeria della stessa. Indi, temo più la via sull'allontanamento. Speranza. Pulsiva schizofrenia delle masse. Il fedele che non osserva devozione all'uomo e all'esperienza umana ma a ciò che è sconosciuto può spingersi altrove, sulla via paranoica; il greco ci riporta al rigor di significato sulle ancestrali tracce: follia, fuori dalla mente. Questo mi spinge sull'indagine dell'essere psichico. Si pone il ricordo del folle che discende il monte e grida al mercato. Ma folle e masse par abbiano costitutive differenze temporali in essere. Se così è, delle folle son minori i danni, e così del folle non si debba temer. Sono le masse a cogliere e forgiare identità disgregando l'ente che può non partecipare dell'indicibile intimo essere. Così le cristallizzate dannose sovrastrutture organizzate. L'attenzione muove su νοῦς, noûs. Si traduce con mente e intelletto. Intelligere legge dentro raccogliendo insieme e scegliendo. Questo rivela il processo delle informazioni di scambio nate dagli atomi che vorticano per raggiungere il filtro grazie alla spinta ammantiva del thumos. Così trovo corrispondenza dimostrativa alle mie intuizioni sul ruolo delle cellule cardiache, tabernacolo dei neuroni primi, e per differenza l'incontro di riconoscimento attivo in osservazione di ben formate e stortura mentale, tramite la personalità dell'individuo. Dovrò incamminarmi oltre.


. . .


Discendere all'ǎḇaddōn è facile. La porta è aperta notte e giorno. Ma risalire i gradini e tornare a vedere il cielo, qui l’opera, qui la vera fatica.


 

Io sono convinto che l’uomo non rinuncerà mai alla vera, autentica sofferenza. Giacché la sofferenza è la vera origine della coscienza. In realtà io continuo a pormi una domanda oziosa: che cos’è meglio, una felicità da quattro soldi o delle sublimi sofferenze? Dite su, che cos’è meglio? Dostoevskij, Note dal Sottosuolo




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