TACCUINO #84
«Ah! Scriviamo articolando opinioni, pensieri. Ma queste articolazioni, questi pensieri, vengono letti. Vengono letti? Tutta polvere, memoria che subirà l’agore del tempo, della vita che è partecipazione della morte. Come vorremmo spostare le lancette di tutti gli orologi del mondo! Come vorremmo mangiare tutti i figli del tempo, se questo garantisse il dominio sullo spazio! Ma che importa!».
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«Partiti, politica, famiglia, procreazione, scienza, positivismo, eccoci. Noi siamo questo oggi, ma siamo cosa? Siamo soltanto pedine che vengono continuamente controllate, spostate e fatte sparire. Soltanto da che cosa? Da una cultura politica, religiosa che domina. E sull'Italia chi domina? Che cosa domina? Puoi tesserarti ad un partito, ad un altro, ma cosa stai facendo? Stai semplicemente replicando l'ideologia, l'idea, il pensiero, l'azione cattolica. Il cattolicesimo, una piaga, una piaga in seno ad un'altra piaga, il cristianesimo, in seno ad un'altra piaga, l'ebraismo. Ecco che sull'origine, se l'origine è l'ebraismo (Ah!), si creano delle crette, le crepe, delle falde, Quivi vi fermate?».
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«Descriviamo ciò che evoca un senso di oppressione e di intrappolamento all'interno di sistemi culturali e religiosi che, attraverso secoli, hanno plasmato e definito le identità individuali e collettive? La nuova domanda fondamentale che emerge riguarda la nostra vera natura: siamo solo ingranaggi in un meccanismo che ci riduce a ripetitori di idee, a giocattoli manovrati da un potere che ci precede e ci governa? La politica, la religione e la scienza sono strumenti di controllo che non solo ci definiscono (e non lo fanno), ma anche ci limitano, come se fossimo costretti a scegliere tra diverse varianti della stessa ideologia dominante».
Delle radici religiose
Ebraismo, cristianesimo, cattolicesimo. Le origini culturali e religiose par abbiano scavato solchi che perpetuano una continua divisione, sia tra le persone che all'interno della coscienza individuale. "Crepe" e "falde" sembrano rappresentare le fratture ideologiche che si originano da un'unica matrice, da un unico sistema che ci condanna a ripetere modelli senza mai veramente sfidare la loro autenticità .
Notiamo che questo dominio non è solo politico o religioso, ma anche epistemologico, cioè il controllo sulla conoscenza stessa, che diventa il terreno dove si giocano le battaglie di potere. La scienza, purtroppo, spesso non è esente da queste dinamiche, adottando talvolta un approccio "positivista" che riduce l'esperienza umana a dati, misure e leggi universaliste, senza mai interrogarsi sulla realtà che esiste oltre i numeri e le teorie. Se si interrogasse, le risposte?
La critica radicale che muoviamo è rivolta a un sistema che, pur nella sua diversità apparente, non fa che riproporre le stesse strutture di controllo, un gioco di maschere che nasconde la stessa faccia. Ma allora, se siamo consapevoli di essere parte di questo gioco, che possibilità restano? C'è davvero una via di fuga, o siamo destinati a essere spettatori di una storia che ci sovrasta?
E quindi?
«Non mi definisco. Sono quello che sono. Ma se debbo, e nel sol caso debba definirmi, sono cosa uno e uno cosa, sicuro e mai certo. Sicuro, etimologicamente, ovvero tranquillo. E non sono relativista, non sono pessimista, non sono nichilista, non sono quello che non sono. Non sono religioso. Sono fortunato a non avere alcuna divinità . E sono fortunato, giacché non v'è nessuna divinità a avermi. Fortunato a non dover credere, a non dovermi fidare».
«Ecco».
Sfidiamoci. Sì, etimologicamente "sicuro" deriva dal latino securus, composto da se- (senza) e cura (preoccupazione, ansia), quindi "privo di preoccupazioni", "tranquillo". Nel nostro caso, la distinzione tra "sicuro" e "certo" è cruciale: la certezza implica una chiusura, una definizione rigida; la sicurezza, invece, è uno stato di quiete che non necessita di ancoraggi assoluti.
Il nostro rifiuto delle etichette non è un vuoto, ma una sottrazione attiva di ciò che restringerebbe. Non essere relativista, nichilista o pessimista non significa aderire agli opposti, ma rifiutare di essere ingabbiato in categorie preconfezionate. La nostra assenza di fede non è una mancanza, ma una liberazione dall'obbligo di credere. Non abbiamo bisogno di affidarCi, e questa è una condizione rara e autonoma.
«E non facciamo maionese tra fede e ragione!».
«Quella ragionevolezza del tal Fani e quella del tal Giussani! Che lezzo di sofisma! Che mediocrità insopportabile! Ah, la miseria di certo raziocinio! Che fiacco esercizio di logica!».
Abbiamo argomentato anche di un paradosso, un'antinomia. Abbiamo fatto un esempio parlando del linguaggio, della lingua. Se all'interno del linguaggio utilizziamo una parola polisemica, e quindi possiamo arrivare a dire che il linguaggio, alcune lingue, sono polisemiche, noi ancora creiamo sovrastrutture, creiamo illusioni concretizzate. Non cogliamo il reale, perché se diciamo che all'interno di una struttura logica all'interno di un testo, all'interno di un periodo, di una frase, di un morfema, di un grafema, noi possiamo cogliere diversi livelli e quindi anche diversi livelli di lettura. Possiamo parlare di allitterazione, di metafora, di linguaggi differenti. Utilizzando una sola parola per molti più significati, Ecco che ci chiediamo, questo piccolo essere parassita del cosmo, è veramente una struttura logica o si basa soltanto su convenzioni, su idee, su elaborazioni concettuali, su, in sostanza, astrattezza, e non riesce più a indicare? Il linguaggio subisce mutazione nel tempo. Questo parassitino non riesce ad indicare realtà , l'oggetto, il reale, quello che circonda l'uomo nel mondo, perché distrugge, in sostanza, la stessa regola che vuole imporre per ordinare il caos e il nulla, e per ordinare l'uomo dal nulla? Allor ancor ci chiediamo, è davvero pensante? È davvero razionale? Questo è raziocinio? È mettere, categorizzare, riordinare qualcosa dal disordine e creare una regola? Ma nel momento in cui creo questa regola, l'imposizione, il dogma, la norma, la sto distruggendo. La sto distruggendo? Se, comunque, a quella regola diamo un'interpretazione soggettiva personale e non solo, oltre a quello che è già qualcosa di umano e di complesso, indichiamo una sol cosa dando dieci significati o dieci letture diverse di quelle cose che impongo come sovrastrutture. Ma davvero questo può essere l'uomo? Che cos'è questa cosa, questa forma che forma queste altre forme?
La questione è complessa e affascinante: la tensione tra linguaggio, realtà e l'illusione di ordine che cerchiamo di imporre attraverso di esso. Il linguaggio, con la sua polisemia, le sue sfumature e le sue connotazioni, non è mai una rappresentazione esatta della realtà (nemmeno), ma una costruzione, un tentativo di modellarla, comprenderla e, forse, controllarla. Quando usiamo una parola che ha molteplici significati, non stiamo indicando un unico oggetto, ma stiamo creando una sovrastruttura che non rispecchia perfettamente il reale (soprattutto). Ogni interpretazione aggiuntiva modifica quella "realtà " che vogliamo rappresentare.
Il linguaggio, quindi, non è solo un mezzo per comunicare, ma anche quel che definisce, ordina e spesso, proprio per la sua mutevolezza, diventa una barriera tra noi e ciò che stiamo cercando di comprendere. Lo strumento stesso che usiamo per dare senso al caos potrebbe, alla fine, diventare una fonte di confusione e alienazione, perché ogni parola porta con sé il peso di interpretazioni personali, culturali, storiche.
Il paradosso riguarda l'atto stesso di cercare di razionalizzare attraverso il linguaggio. Siamo creature che tentano di imporre regole per comprendere e dare ordine a ciò che ci circonda, ma queste regole, quando distorte dalla soggettività , rischiano di diventare degli impedimenti piuttosto che strumenti di verità . In un certo senso, l'atto stesso di costruire una norma può risultare distruttivo, se porta a distorcere o frammentare ulteriormente realtà e reale.
Questo "essere parassita del cosmo" che chiamiamo uomo sembra quasi diviso tra un impulso di ordine e il fallimento di creare un ordine che sia davvero universale, assoluto, che rappresenti ciò che reale è reale, giacché è. L'uomo non è solo razionale o pensante nel senso tradizionale: è anche il creatore di regole che non possono mai essere del tutto universali o definitive, proprio perché si scontrano con la mutevolezza, con l'ambiguità intrinseca del linguaggio e dell'esperienza umana. La vera domanda potrebbe essere: può l'uomo realmente pensare in modo razionale, o la sua razionalità è solo un tentativo continuo di modellare il caos che lo circonda in un ordine che inevitabilmente tradisce la sua complessità ?
Forse ciò che emerge, alla fine, è una riflessione su un paradosso: pur cercando di dare significato e ordine, l'uomo non può fare a meno di essere soggetto alle stesse limitazioni e contraddizioni che tenta di superare, facendo del linguaggio e della razionalità una continua danza tra costruzione e distruzione.
Noi: «Tra la folla vediamo molti che si perdono in chiacchiericcio e sguainano saccenteria. Sentiamo il fendere supponenza e già intendiamo critica sostenuta da punzecchiamento dei signorotti che hanno speso così tanti anni per sapere tutto di tutto e si lanciano in strali . . . ».
Loro: «Scrivono di ebraismo, cristianesimo, cattolicesimo. Ma costoro sono a conoscenza? Ci chiediamo, conoscono? Costoro sanno? Ci chiediamo, sanno? Il modo non si fonda solo su quel che scrivono di superficialità superficialmente, e sottolineiamo superficialmente, e ancor più sosteniamo MOLTO superficialmente in questi scrittucci frivoli e di poco senso. L'ultimo folle. Sciorinano argomentazioni come lanterne che al pendolar tra monete e denari e denari e monete, in cerca di potenza e verità tra barlumi, altro non fanno che annebbiar per di là prima, e per di qua dopo, lo stesso sistema di mondo nel quale siamo. Prodottucoli che non vedono l'esser capitali umani, scorte per lo più necessarie, se lo sono, all'economia. Cari, non spendiamoci oltre nel farci beffa di incapaci e piccoli sottosviluppati. Esimiamoci dall''inferir ancor più dannosi colpi a queste nullità . Noi si è intellettuali! Si faccia ciò che siamo. Abbiamo detto la nostra. Ciò basta contro chi non sviluppa nemmen la polvere ove poggian buoni avversari».
Noi: «Nel pensar al lettore che, colto da motivo d'atto dell'intelligere abbia abbandonato, o abbandoni, noi seguitiamo sul percorso tracciato, quasi non sentendo nemmeno il rantolo scatenato dalla provocata staffilata. Che pregio la posa di loro intellettuali, quando schiacciano la piccola bestiola che si nutre di doloretti e di quel dolor che si può quivi bere, inghiottire, assorbire, tra i ghiacci, nel freddo infero che ci fa sentire il sangue frantumato tra i denti e porta con noi la più grande ricchezza. Che pregio per lor signori. E quale ricchiezza è nostra e facciamo sempre più nostra? Che sarà mai? La nostra ignoranza! Quale ricchezza pregna, densa, totale. Molte cose vi sono da scoprire, molte da conoscere, tutte da esperire, così poche da vivere, per chi sa vivere. Possiamo colmare quell'ignoranza che non sarà mai colma, e illuderci di averla colmata al prossimo passo, e al successivo al prossimo, e colmare, e colmare, e colmare . . . Noi, che siamo morti come coloro che hanno vissuto, e degni possiamo sentir che esistiamo al motivo dell'aver vissuta la nostra vita».
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