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Nocumento

TACCUINO #18


La conquista del percorso che muove per verità non è forse, evidentemente, eidetica? Quando vediamo la pura essenza dell'essere? Perché non vediamo? È forse proprio del tempo conscio lo sguardo che osserva il mondo vuoto? È il sogno il nocumento, o lo è la manifestazione che si appercepisce attraverso la naturale ermeneutica pello intelletto?


Osserviamo il piovere sollucheri sulle menti non ben formate che trionfano forme ebbre di stati miseri e penosi, tanto più miseri e penosi quanto più l'avidità è linfa che si fa spazio pelle vene e pasteggia sangue. Più pasteggia, più rincorre traguardi bugiardi, illusioni che ridono della stirpe effimera che si auto annienta.


«Ma è così che voglio! Io faccio ciò che voglio! Consumo ciò che è consumato per consumare il consumabile! Ecco, Si! Io sono poichè consumo!».


Consumo, dunque sono.

«Meraviglioso! È proprio così! Lo spirito della vita. Grande io sono, divoro la morte che mi sopravvive.»


Questo è l'uomo? Questo è un uomo?


L'uomo resta morto!


In questo luogo solo nebbia, e nemmeno il ricordo di un olezzo nauseante che lasci rimembrare un cadaverico passato fu vivente. Qui, par non vi sia stata traccia dell'uomo. Non è qui che lo abbiamo perduto, ma è qui che andiamo a indagar la sottospecie di nuova specie che affronta senza vita il contemporaneo mondo privo di forza e affronterà l'ergersi del nuovo primo post liquido, sull'estinzione dell'arsiccio estinto.


Qui, almeno, le folle e le masse del pensier comune non si palesano, non vi è il bue ignorans. Qui non si discende per inzuppare di menzogna e stupidità un tempo libero e sacro.


Qual procella andiam indagando?


Una cretta in questo terreno segnala la presenza di ulteriore profondità e scorgiamo nuovi inferi. Forse il tempo più lontano da quelli odierni in superficie. Il passo è la lenta marcia che oramai abbiamo capito conduce. L'esperienza che vede i frantumi di una caotica armonia un tempo illuminante, sul moto dell'assordante patheticus alitante.


Siamo qui per cogliere il narcisista, fenomeno ascoso alla vita giacché prodotto tra prodotti, esponente massimo di tutte le corruzioni immaginabili, tra tutte le corruzioni immaginabili?


Siamo forse qui per cogliere l'essere?


Siamo qui per un antidoto, un veleno, una cura, un pharmakos?


È forse qui l'origine del maledetto, catturabile e spinto fuori le mura della città vitale tramite pratica esperienziale?


Ostracismo, sassate, frustate, sono forse quel rituale farmaceutico utile a espellere il dolore e l'impurezza? Può oggi esserlo il combattere dolore con altro dolore? Una memoria greca può esser motivo di purificante salvezza?


Quale rito, oggi, allontana dal culto della metafisica?


Cosa possiamo intendere come catarsi sociale?


In guardia da ogni qualsiasi -ismo. Non indichiamo così facendo la medesima spazzatura fatta di varie scorie? Risulterebbe divertente battere una lista per puro gaudio di scrittura, ma è più immediato un riferimento multiplo a terminologie che hanno abbracciato e abbracciano politica, società, religioni, psicologie, movimenti, gruppi, ideologie, e tutte le proporzioni epidemiche che sfruttano intellettualismo esistendo nell'intellettualizzazione di auto compiacimenti che giustificano degradanti esistenziali illusioni.


Il panorama nevrotico di una condizione esiziale spinge a pensare che la forza risieda nel perseguimento di una dottrina, di una filosofia, di una politica, di una teoria, di un comportamento, di un atteggiamento, di una corrente di pensiero, dunque di un sociale, di un movimento, di un grido che inneggi a defunti e generati -ismo.


«Ne devo far parte!». «[ ... ] io penso così perché sono quello che dice il tal condottiero!». «[ ... ] finalmente uno bravo che può salvarci tutti! [ ... ]». «Quello sì! Ecco! Quello sì!».


Quale pena. Quale abisso di mediocrità pegli occhi miei che vedon ogne quisquilia.


Siamo qui per riveder la trappola.


Quanto è triste l'epifania. Ed è tutto quel che abbiamo?


Al declino della decadenza non vi è fine. La pietra rotola infinitamente perduta, nei gesti ripetuti dalla follia. Nessun Sisifo è più deludente dell'assurdità della condizione di falsa magnificenza esistenziale. Così la forza violenta è il chaos primordiale che dirige il teatro del nulla, dal nulla, al nulla. L'amoeba è schiava di breve galvanotassi, sotto il peso della forza violenta di Toutatis, un topos dai più nomi che inneggia a un solo topos, un solo racconto, tra molti racconti, un solo passato, tra molti passati, un padre della tribù, che sopravvive secondo sacrifici che, non terminando, terminano nell'esistenza del piccolo mortal slombato.


βίος βίαιος.


Superbo. Dal latino supèr-bus. Non è agevole spiegare la finale -bus. Appare parallelo per sembianza al greco yper-bios, prepotente, violento, (il sanscrito riporta -bhyas). Il composto unisce super, il greco ypèr, sopra, e bus, il greco bios, che tiene ancora al greco bia, forza, violenza, bíaios, violento, ma anche sforzato, costretto, biàô, costringo. Il sanscrito g'i-na-ti è violentare, g'ay-ati è superare, vincere, e - intransitivo - essere oppresso. La radice sanscrita BHÛ- riporta a essere. In acer-bus, mor-bus, superbo varrebbe che è al di sopra, su rappresentazione della radice greca ba-, andare, cioè che va al di sopra, inteso propriamente alto, erto, che ha eccessiva stima di sé, onde presume disprezzo. Altrimenti Altiero, orgoglioso. Ma dal latino bàsis e dal greco basis conosciamo il passo, il piede, la parte opposta al vertice.


Non è quindi chi vive la base, alla base, la morte dell'uomo? È questo un uomo? Quale forza nella minaccia, nella violenza barbara, senza arte, senza tragedia, senza il teatro che spiega il mondo e chi ne partecipa, nel teatro della suprema esistenza al nulla?


Ma oggi tutto cade nell'acquisto di biglietti per l'oltreoceano che arriva da lontano e arriverà sul palco di un fatiscente luogo, atteso alla vista di un fatiscente spettacolo ove ci saranno quelli che aspireranno a massimi interessi chiedendo: «Quale posto avrò? Si vede bene? Si sente? Meglio la prima fila?». Ecco il posto che hai, che ti spetta, il limite più basso dell'indecenza, lo schifo di una putrida incivile civiltà che si pavoneggia di futilità e non sa, non vede, non sente. Il teatro è morto con il teatrante che sapeva drammar la vita e spiegava l'essere.


Anche il gridare dì per dì ‘טַלִיתָא קוּם, Talitha koum’, non sortirebbe effetto. Non ci si può alzare dallo svilito contemporaneo perduto nel tempo della vergogna.

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