L'analisi fenomenologica dell'esistenza umana non può prescindere dall'ineluttabile constatazione che ogni tentativo di comprensione non fa che accrescere il senso di smarrimento. Il mondo non si disvela attraverso un'epifania della ragione, ma si radica nel substrato oscuro della materia: odio, paura, brutalità, asprezza, dominio. La sofferenza, lungi dall'essere un accidente, è la condizione ontologica che permea l’intero tessuto dell’esistenza. Si badi, con sofferenza, intendiamo dolore, stato (e stati) di malessere fisico. Possiamo così considerare sofferenza: espressione che attraverso un linguaggio che parla l'uomo lo stesso articola per individuare mancanza di assenza di tormento, spasimo, fitta, produzioni nervose del corpo. Siffatto chiarimento, tra realtà percepibile e metafisica, ci porta a comprendere l’ente umano come emanazione di realtà entropica, prigioniero della propria consistenza e della propria autoillusione. Il metafisico è, in ultima analisi, inganno che tradisce la materia, la quale può richiamare all'appartenenza della medesima partecipazione della sostanza.
Questo mondo non è un locus sicuro. Non lo è mai stato. E non lo sarà mai finché il cosiddetto homo sapiens continuerà a manifestare la propria essenza degenerativa e autodistruttiva.
L’uomo si rivela nella sua intrinseca miseria: ingratitudine, viltà, distruzione sistematica. Non è una devianza dalla norma, bensì la norma stessa, l’incarnazione materiale di una pulsione nichilistica che permea ogni sua espressione. La carnefice è stata un’anteriore anomalia stortura formante, il riflesso più autentico dell’abisso della mediocrità. Ciò che la cultura umana definisce “male” non è altro che la manifestazione più coerente della natura propria, tra differenti nature.